*** STORIA MONTEVERDE


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Alla ricerca di Cominio e Crito
nelle pagine di Roma antica
ABEdizioni
con il patrocinio di
-Sindaco del Comune di Monteverde, Antonio Pizza
-Regione Campania, Assessorato alla Cultura
Organizzazione generale
-Arturo Bascetta Autorecon il contributo dell’Assessorato alla Cultura della Regione Campania
-ABE AvellinoNapoliBeneventoIsoledelGolfoVia Alcide De Gasperi,8 83015 PietrastorninaContatti redazionali 082.483.93.24 - 082.483.99.42 - 082.590.20.61
Progetto graficoAntonio SaggeseTommaso Saggese
Coordinamento redazionaleFrancesco Martino
In redazione Carmine Melisi
Servizi fotograficiAngelo Marchese
- CervinaraPrima Edizione: novembre 1999Copyright Arturo Bascetta Edizioni
In I e IV di copertina
Composizioni su Monteverde Indice
Presentazione CAPITOLO I
Teorema sulla storia di Roma antica...Civitate Foro Iuli di Falerno in Latium e Capua Vetere a Montetifata in Campania - Campania, Sannio e altre 10 Regione d’Italia diventano le 12 Diocesi Italiane-Lyciane - La Regione Sannio: Abella in Atium, Benevento e la Colonia Veneria in Venusia
- Il Ducato di Benevento si divide: nasce il Principato di Benevento in Falerno
CAPITOLO II
La tesi su Monteverde ed AquiloniaMonteverde e l’antica Aquilonia - Orazio sulla via Appia
CAPITOLO III
Aquilonia, Cominio e Crito di BeneventoAquilonia e Cominio nella descrizione liviana
- Boviano antica è una ed è presso Benevento
- Vico Albo in Cominio, Duronia e Amiterno
- Lo Creto
- Cretanum normanno nel distretto di Penne
CAPITOLO IV
Catepanato Italia di Civitate Troia
-BeneventoMontevirido dell’episcopio Consinii di Santa Maria di Civitate Cunse
- Il primo documento longobardo in italiano
- Il Catepanato di Troia nell’anno Mille
- Il papa vuole anche Troia e anche il Catepanato Italia e stringe l’accordo con i Normanni nel 1022
-Il Comitato Arianensium di Troia
- I dodici castelli antinormanni
- La rivolta ufficiale con l’occupazione di Capua
CAPITOLO VI
Castelli contro i Normanni
Un ducato e un principato in Ducato Apulia
- Il Castello di Montis Viridi del vescovo
-feudatario Maione del 1059
- Il Castello di Montis Viridi del vescovo
-feudatario Maione dell’anno 1059(?)
- Nel Ducato di Apulia
- Monte Viridis di San Giovanni in Venere di Pratola Serra
- Il feudo di Montis Viridi attuale Monteverde
- Il Pontifex antipapa ad Avellino Corninum e Montis Viridi nei documenti ritrovati a Monteverdi di Toscana
- La chiesa di Santa Agnese dell’episcopio di un Montisviridis di casa nostra nell’anno 1177
CAPITOLO VI
Gli errori degli storici: conclusioniCastelli e Civitate del Ducato Apulia sono in origine sul Sabato, le Terre del Principato Ultra nscono solo nel 1299
- Le vere Civitate vescovili assorbite da Montevergine alla scomunica di Re Manfredi
Presentazione Nel buio dei secoli più lontani
di Antonio Pizza*
Con la seconda parte relativa alla storia di Monteverde si è inteso dare spazio alle diverse opinioni sulle origini di questi luoghi e sulle popolazioni che abitarono l’Italia Antica fondando, distruggendo o rifondando i diversi insediamenti che ancora oggi portano lo stesso nome.
E’ in questa ottica che gli studiosi continuano ad animare il dibattito storico alla ricerca delle vere radici di Monteverde, aggiungendo, pezzo dopo pezzo, un tassello in più per comprendere il nostro passato.
Senza storia non può esistere il presente, pur rivelandosi, ancora una volta, i risultati delle ricerche non concordi sulla nascita di Monteverde essendo più di una le località con questo nome.
A quanto pare, infatti, i nostri avi non fondarono una sola Montis Viridi, anche se, probabilmente, furono essi stessi a dare vita a più centri omonimi, se è vero che ritroviamo l’identico problema della toponomastica per i cognomi. Terremoti e catastrofi naturali hanno fatto il resto.
Purtroppo, per comprendere la storia antica, non si può studiare solo la storia del proprio campanile, ma bisogna avere un quadro oggettivo di tutto ciò che è accaduto. Dopo questa nuova ed entusiasmante lettura, anche noi ne sapremo sicuramente qualcosa in più.
Sulla storia di Roma, sulla storia dei Longobardi e dei Normanni, e, soprattutto, sulle origini dei nuclei abitati di tutti i tempi chiamati Monteverde.
* Sindaco di Monteverde
Capitolo II
Pergamena provenientedal Codice di Bari
Comitatu Arianensium
Civitate Troia
distrutta e fatta riabitare (1024)His qui sunt de potestate et dominatu Comitatum Arianensium voluntate predictorum comitum a Francis se dividentibus et ad partem victoriosi et sacratissimi Imperatoris currntibus.
Hec civitas per multos et innumerabiles annos destructa a nobis baiulis domini Imperatoris restaurata et bene munita est; que civitas Troia vocatur, et cum magno studio et velocitate eam habitare fecimus.
Tunc vero rogati a concivibus Civitatis sumus, ut fines et terminos tante civitatis, terrarum, stabiliremus et presignaremus.
Quorum petitionibus fidelissimis nostras aures applicantes in presentia Iohannis de Alpharana prothospartarii et Bisantii eiusdem prothospatarii fratris, custos della civitatis Troie, et Leonis de Maralda baiuli domini Imperatoris et Stephani cartularii Matere et Passeris et Bizantii comitum curie et Maraldi dapiferi provincie et multorum virorum per presentare i terminos di Troia, sicut incipit a camera Sancti Eleutherii et vadit ad locum qui vocatur Burganum, et inde iuxa flumen descendendo vadit usque ad locum qui dicitur Trium Virginum, et inde ascendit usque ad caput Montis Albani, et tendit ad Montem Aratum, et transit usque ad stratam Bovini, et inde usque ad flumen Aquilonis, descendit usque ad transitum Colonnelli, et descendens per fluminariam pervenit usque ad civitatem que dicitur Arpum, et a pede Arpi ferit ad caput Faczeoli, ubi est copia stincorum, et vadit usque ad locum qui vocatur antique Telesie, ubi maxima Petra est Fixa, in loco ubi surgit Fons et tendens ad terram de Stincis iusta Virgineolum ubi surgit aqua, et inde transit ad Vadum fici ad flumen Cervarii, et ascendens iuxa ipsum fluvium vadit usque ad locum ubi Lavella iugit se cum Cervario, et ferit in medio Carpineta in strata Montis Illaris in presignata quercu, et inde ascendens al caput Malliani descendit ad Lavellam, et inde vadit ad caput Montis Maioris et ferit ad speluncam Ursarie, et descendit ad transitum Nucis, et inde descendens ad valloncellum qui est caput fluminis Carvarii, et ferit ad locum qui vocatur Relopum, et inde transien congiungitur cum predicta camera Sancti Eleutherii.
Confronto fra pergamene originali per dimostrare che i medesimi territori soggetti a Civitate Troia hanno modificato continuamente il loro nome nel giro di poche decine di anni e che poi il gruppo dei nomi dei territori originari è stato volutamente trasferito a luoghi lontani.
I confini del bosco di cui si parla sono presso Avellino o presso il fiume Aquilone di Aquilonia? Civitate Troia è la cittadella sepolta in territorio di Atripalda-Manocalzati o Troia di Puglia? Può mai essere l’attuale Telese Terme l’antica Telesia se, quest’ultima, si trovava sulla via Appia a quattro passi da Civitate Troia?
La vera Telesia è più o meno sull’Appia, fra Serino e Prata.
Pergamena provenientedal Codice di BariDonazione di Roberto Duca di Apuliaa S.Maria di Monte Aratoin Ducato di Apulia (1080)“Damus et autorizamus monasterio de Sancta Maria de Monte Arato de terra nostra per hos fines quod infra leguntur: In primis incipietur per Vadum Carrarium quod est in flumine Aquilonis, et velut sunt Troie fines, et sicut preceptum troianum continet, et ferit in flumine Burgani in Vado de Duobus Virginibus, pergit sic in illud flumen Burgani in terris Sancte Marie de Bulgano, et pergit in via de Vado de Cannis et pergit per Viam usque ad viam Crucis que venit a Vado Duorum Virginum et vadit per viam usque ad dexteram manum usque ad Foveam que est erga ipsam viam, et in Fronte illius sunt positi termini, et vadunt per directum usque ad Caput Montis Arati et directum pergit ad rivum Florentii, et pergit secus dictum rivum usque ad Vadum per quem pergit usque ad Sanctam Mariam et transit per eumdem Vadum, et directum vadit ad prefatum flumen Aquilonis ad Vadum Ursengarii, et descendit iuxta illud flumen usque ad primum finem. hanc terram frefato monasterio, tibi Stephano episcopo troiano dono in perpetuum sub anno 1080, mense iulii, indictione 3.
Le tesi su Monteverde ed Aquiloniadi Vincenzo NapolilloMonteverde e l’antica Aquilonia - Orazio sulla via Appia 1.
Monteverde e l’antica Aquilonia
Monteverde, antica città del Principato Ultra, è situata in amena posizione, alla distanza -dicono le vecchie carte- di sette leghe di S. Angelo dei Lombardi ed una da Carbonara.
1 Il toponimo (nome del luogo) è composto dal Monte e dall’attributo viridis, nel senso del colore e della vegetazione, in logico contrasto con Montecalvo.
L’abitato di Monteverde si erge a 740 metri di altitudine, sulla sponda sinistra del fiume Ofanto, a stretto confine con la Campania e la Basilicata. Fu identificata con Aquilonia, celebre nella storia per la battaglia dell’anno 480 della nascita di Roma, dei Romani contro i Sanniti.
E’ bene precisare che la suddetta ipotesi, che ancora oggi si ripropone, purtroppo non trova riscontro nell’opera di M. Freccia sui Suffeudi: Episcopus Montis Viridis non habet vetustatis signa, nec Civitatis habitatores nobiles sunt, cioè: “Il vescovo di Monte Verde non ha segni di antichità, né gli abitanti della Città sono nobili”.
2 E’ interessante, comunque, fare luce sulla distruzione di Aquilonia, così come fu descritta da Tito Livio, nel libro decimo della I Deca.Fra le terre confinanti con Roma, quella della Campania (che prese il nome da Capua) era la più ricca e la più fertile.
L’abitavano i Sanniti, una parte dei quali era rimasta sui monti dell’Abruzzo, da cui scendeva, per fame e per freddo, a saccheggiare il piano. I Sanniti di Capua, (C)apuani? , furono costretti a chiedere la protezione di Roma. Così cominciò la prima delle tre guerre sannitiche, che durarono in tutto una cinquantina d’anni, contro gli Abruzzesi.
Gli Irpini, che abitavano il Sannio meridionale ( provincia di Benevento e di Avellino), furono chiamati così da Irpi o Arpadia loro metropoli,
3 per la voce sannita “hirpus” (o lupo), sacro ad Ares (o Marte).
Scrisse Strabone: Riguardo ai Sanniti circola anche una tradizione secondo la quale i Sabini, impegnati da molto tempo in guerra contro gli Umbri, fecero voto - come certe popolazioni greche - di consacrare agli dei tutto ciò che sarebbe nato in quell’anno.
Conseguita la vittoria, parte ne immolarono, parte consacrarono; ma scoppiata una carestia, qualcuno disse bisognava consacrare anche i figli. Così fecero, e consacrarono ad Ares i figli nati durante l’anno e, divenuti questi adulti, li inviarono a fondare una colonia: fece da guida un toro.
Poiché il toro si fermò a dormire nel paese degli Opici ( che vivevano in borgate ), li scacciarono e si stabilirono sul posto e sacrificarono il toro, secondo le indicazioni degli indovini, ad Ares, che lo aveva dato come guida. Probabilmente per questo ricevettero il nome di Sabelli, diminutivo di quelli dei loro padri.
Il nome Sanniti, per i Greci “Sauniti”, ha altra origine. Viene poi il popolo degli Irpini, anch’essi di ceppo sannita. Ricevettero questo nome dal lupo che fece da guida alla loro emigrazione: i Sanniti chiamano hirpos il lupo. Confinano con i Lucani dell’entroterra”.
4 La provincia di Avellino s’intende oggi per Irpinia; e ciò ha contribuito all’errore di collocare l’antica Aquilonia ( a Monteverde, per alcuni, a Lacedonia, per altri), lontano dal paese dei Pentri, o Sanniti centrali, cioè poco più di 32 chilometri lontana da Cominium e quasi un giorno di marcia da Bo(v)janum (in provincia di Campobasso).Arturo Bascetta scrive, però, che Cominio e Crito sono tra Barba e Tufo, lungo il fiume Sabato. Un’altra tesi è quella di Cillo.
Come si vede la questione non è definitivamente risolta.
Le principali città dei Sanniti furono: Sannio, Tiferno, Caudio, Saticola, Suessola, Fuscola; Eclano, Ferentino, Romulea, Venosa (che si vuole anche dei Peucezi), Boviano (confusa con Castelvetere sul Calore), Isernia, Alife, Telesia, Tervento (o Trivento), Cliternia, Sepino. Furono città degli Irpini: Benevento, Equotutico, Eclano, Carife, Cossa, Rufro. Nel 321 a.C., due legioni romane furono intrappolate nella strettoia di Caudio, detta Forche Caudine, e furono costrette ad arrendersi a C. Ponzio Telese, subendo l’umiliazione di passare sotto il giogo delle lance sannite.
I Romani tentarono la rivincita, ad opera di Lucio Papirio Cursore, (detto il Corridore per la velocità d’azione bellica); ma, in realtà, passarono anni per preparare la loro vittoria.Suo figlio, dello stesso nome, della Gens Papiria, fu due volte console (293 a 272 a.C.) e due volte vincitore sui Sanniti e su Taranto. La vittoria di questo console, Lucio Papirio Cursore, su Aquilonia fu raccontata da Tito Livio, che affermò testualmente (Deca X, 43,15):Questa grande massa di uomini, che era tutto lo sforzo del Sannio, s’allogiò presso Aquilonia (“forte di mura”).
I consoli partirono da Roma: e il primo fu Spurio Carvilio, a cui consegnate le vecchie legioni, le quali Marco Attilio, console dell’anno precedente, aveva lasciato nel Contado di Interamnia (Lirinas). Con queste, essendo egli in Sannio, mentre i nemici (avendo atteso a cotali superstizioni) facevano i loro segreti concili, tolse loro Amiterno, ove morirono 2.800 Sanniti e furono presi 4.270 prigionieri. Papirio, avendo arruolato un nuovo esercito, perché così era stato deliberato, prese per forza la città di Duronia(...). Andarono, poi, i Consoli predando tutto il Sannio, e specialmente il Contado Atinate.Carvilio giunse a Cominio, Papiro ad Aquilonia, ove era la massa dei Sanniti (...).
L’altro campo dei Romani era venti miglia lontano, e i consigli del collega assente in ogni cosa vi intervenivano, ed era tanto più attento Carvilio alle cose di Aquilonia, quanto il pericolo vi era maggiore che a Cominio, ch’egli assediava (...). Le frontiere che scamparono furono respinte dentro gli alloggiamenti, presso Aquilonia.
La nobilità e le genti a cavallo fuggirono a cavallo a Boviano.
I Cavalieri perseguitavano i cavalli, e similmente i pedoni le fanterie. Le bande dell’esercito dei Sanniti si divisero (...). Di notte la città fu abbandonata dai terrazzani.
Furono quel giorno morti, presso Aquilonia, dei Sanniti 30.870 e furono guagnate 97 bandiere.
Di questo ancora si fa memoria, che non fu mai veduto capitano in fatti d’arme, che si mostrasse tanto allegro, quanto quel giorno fece Papirio (...). L’altro console ebbe a Cominio la medesima felicità.
E poi che le case vuote, vi misero fuoco, sicché un medesimo giorno arsero Aquilonia e Cominio.
E i consoli congiunsero insieme gli eserciti, con una scambievole congratulazione, e di loro e delle legioni.
Carvilio lodò e onorò con doni i suoi soldati, secondo i meriti di ciascuno, in presenza d’ambedue gli eserciti.
E Papirio, appresso il quale si era combattuto più volte, e in molti modi, sia nel fatto d’arme, che intorno al campo e alla Città, donò a Spurio Nautio, e al giovane Surio Papirio figliuolo del fratello, e a quattro centurioni, e a una compagnia degli astati, maniglie e ornamenti delle braccia e corone d’oro.
A Nautio per premiarlo di quella spedizione, mediante la quale egli aveva spaventato i nemici, non meno che egli avesse avuto con sé un grande esercito.
A Papirio il giovane, per l’opera di lui prestata valorosamente con l’altra cavalleria, e nella giornata, e per avere infestato i Sanniti, che nascostamente erano fuggiti da Aquilonia.
I centurioni e i soldati, perché erano stati per primi a prendere la porta e le mura d’Aquilonia.
Ai cavalieri tutti (perché in molti luoghi s’erano portati francamente) donò maniglie d’argento e simili ornamenti. Dopo si fece consiglio (...). Avendo, pertanto, scritto al Senato e al popolo delle cose fatte, dividendosi l’uno dall’altro, Papirio menò l’esercito a combattere Sepino e Carvilio a Volana.
Carvilio aveva già tolto ai Sanniti Volana, Palumbino, Erculaneo; Volana nello spazio di pochi giorni, Palumbino il giorno seguente, ch’egli s’era presentato alle mura.
A Erculaneo egli ebbe a combattere anche due volte alla campagna, con maggior danno suo che dei nemici.
Dopo accampatosi alla terra, chiuse i nemici dentro alle mura, e così combatté, e prese finalmente la terra.In queste tre Città furono morti o presi quasi diecimila uomini.
A Papirio i nemici fecero maggiore resistenza intorno a Sepino.
Egli costrinse, finalmente, i Sanniti all’assedio e vinse ultimamente la Città con le opere delle macchine e con la forza.
Onde per l’ira vi si fece alquanto maggiore uccisione. Presa la Città, vi furono morti settemilaquattrocento, presi meno di tremila.
La preda, che fu grandissima (poiché i Sanniti avevano raccolto in poche città tutte le loro robe) fu concessa ai soldati:Prosegue Tito Livio: Le nevi già avevano riempito ogni cosa, né si poteva sostenere il freddo fuori dei casamenti, e perciò il console trasse l’esercito dal Sannio, e tornato egli a Roma, di unanime consenso, ebbe il trionfo (...). Le spoglie tolte da Papirio ai Sanniti, per la ricchezza e bellezza loro, erano riguardate con grande meraviglia (...). Nel trionfo furono portati 2.533.000 assi (...).
Dopo il trionfo, egli condusse l’esercito a svernare nel Contado Vestino, perché quel paese era assai infestato dai Sanniti.M. Jacopo Nardi, traduttore illustre delle “Deche” di Tito Livio, precisa che Aquilonia si chiama hoggi Anglone,
5 l’odierna Agnone (Isernia), fondata dai profughi di Aquilonia nel 293 a.C. .
Il sito della distrutta Aquilonia è confermato dal fatto che i profughi della città di Aquilonia non avrebbero potuto raggiungere, in una sola giornata di ritirata, Boviano (o Bojano), che era la città principale o capo del Sannio, mentre Spoleto, continua il Nardi, è oggi la principale.
In breve, dopo la capitalizzazione di Aquilonia e di Cominio, il console Lucio Papirio assediò Sepino, in cui egli entrò dopo una gagliarda resistenza, e il suo collega Carvilio prese Volano, Palombino, Ercolano.
La guerra si trascinò ancora nel 291 a.C. e nel 290, mettendo, alla fine, in ginocchio e nello squallore il Sannio, dove s’era combattuto più a lungo, straziato da quarantanove anni di guerra.
6 Tuttavia gli storici hanno passato sotto silenzio, o quasi, la battaglia dell’anno 293 a.C. e non hanno, purtroppo, cercato d’individuare la posizione geografica delle città di cui si fa ricordo nelle Deche di Tito Livio, trascurando l’archeologia come scienza ausiliaria della storia e della geografia.
Aquilonia fu fondata da Tito Livio nell’odierno Molise, abitato dai Sanniti, cioè a circa 20 miglia romane da Cominio, che era posta alle falde degli Appennini, nell’alta valle del fiume Melfa, affluente del Liri, di dantesca memoria.
7 La città di Aquilonia corrisponde ad Anglone, cioè all’odierna Agnone (in provincia di Isernia, che è stata creata capoluogo nel 1970), a tre miglia distante da Trivento (Trebentum).
Scrisse Leandro Alberti: Piegandosi alla sinistra dell’arduo e difficile monte appare Capracotta Castello, e scendendo alla bassa Valle, vicino al monte Maiella, vedesi il nobile castello di Agnone che tiene il primato sopra gli altri castelli di quei paesi.
Vuol Biondo che questo sia l’antica città di Aquilonia, così detta dagli antichi, della quale scrive Livio nel 10. libro che L. Papirio Console condusse l’esercito ad Aquilonia, e quivi fece con gran cerimonie giurare fedeltà ai Soldati Sanniti, dei quali furono scelti 16.000 da lui, e nominati Linteati.
8 Scìlace calcolò due giorni e due notti di marcia per attraversare la fascia territoriale dei Sanniti: era, perciò, impossibile che dall’omonima Aquilonia, nell’odierna provincia di Avellino, i profughi arrivassero in salvo, in una sola giornata, a Baviano (o Bojano), la capitale dei Pentri, città ricca e fornita di armi e uomini.
9 Amiterno, che prende il nome del fiume Aternus, è l’odierna S. Vittorino.
Duronia, che tolse il nome dal fiume, fu chiamata poi Civitavecchia (Civitate Veccla), situate sul colle alla destra dell’alto corso del Trigno, a 36 chilometri da Campobasso.
Cominium è l’odierna Alvito (Fr).Le testimonianze archeologiche di Saepinum, conquistata nel corso della seconda guerra sannitica, sono state rinvenute a 3 chilometri da Sepino, presso Altilia, in provincia di Campobasso. Assicurò Leandro Alberti verso la fine del Cinquecento (sec. XVI): E’ nell’Appennino, Sepino città da Tolomeo Sepinum nominato, et da Plinio sono descritti Serpinates i cittadini di essa, nella quinta Regione.
Et Livio nomina anche essa città nel 10. libro narrando che Papirio facesse gran resistenza alle forze de’ nemici quivi a Sepino, e come poi lo soggiogò, e che uccidesse da 7300 e ne condusse prigionieri 3000 havendo il tutto saccheggiato:
10 Luciano Perelli, esperto traduttore di Tito Livio, confessa, però, il suo limite storico nella frase: Sepino si trova a sud-ovest di Baviano, mentre di Velia, come nelle città nominate più avanti di Palombino ed Ercolano, ignoriamo la posizione.
11 Pasquale Albini, nelle Cento città, assicura che Volano è Valona sul Monte Vairano.
12 Leandro Alberti precisò la posizione di Palombara: Poscia più avanti a man destra, alle radici del monte Maiella, vi è Palombaro, e nelle montagne sopra di quello, Penna (Piedimonte) castello vicino al Sanguigno.
Palombaro (Chieti), dal latino palumbinus, su un colle dominante la confluenza del torrente Avello nel fiume Aventino, è un piccolo centro documentato in RD Apr. Mol. (a. 1308) come castrum Palumbini.
14 Invece, Pasquale Albini menziona Palombino propriamente tra Oratino e Castropignano e Valona sul monte Vairano. Egli indica sul monte di Campobasso la città osca di Herculaneum, distrutta nell’anno 293 a.C. da Spurio Carvilio Massimo, fortezza nel centro del Sannio Pentro. Romanelli, invece, ha ipotizzato che la città sannitica di Herculaneo fosse Montesarchio (o Montefusco per Del Re), essendosi nominata, secondo alcuni geografici, Mons Arcis e, secondo la maggioranza, Mons Herculis, di cui sono a riprova gli avanzi di acquedotti e colonne ed epigrafi della grande necropoli,15 che vanno dal secolo VII a.C. fino al I secolo d.C.
Insomma, fra le rinomate città sannitiche, Aquilonia, rasa al suolo e incendiata dai Romani, non deve far credere che sia uno dei tre comuni dell’Irpinia (Aquilonia, Lacedonia, Monteverde), soltanto perché nel suo territorio ricorrono delle omonimie e ci sono ruderi antichi.
Inoltre la città di Alfadena (Aufidena), che fu capitale del piccolo distretto dei Caraceni, tra l’alto Trigno e l’alto Biferno, non deve far pensare ad una località vicina al fiume Aufidus (l’odierno Ofanto).
Leandro Alberti distingue Monteverde (Av), paese dell’Irpinia, da Monteverde, alla sinistra del fiume Vomano, nominato “Tunonum” da Strabone: Ne’ Mediterranei sono Motulla, Monte Verde, Monte Gualco.
15 Ultimamente Giuseppe Nardovino è tornato, sul giornale Altirpinia (del 30 novembre 1998) a discutere della battaglia di Aquilonia, ponendo un punto interrogativo sull’identificazione dell’antica città, distrutta dai Romani, e prendendo, contradittoriamente, che si facciano scavi archeologici ben guidati.
Ma dove? In Irpinia o in provincia di Isernia? Egli così scrive: Che i Sanniti costituissero un osso duro per i Romani è testimoniato dalla lunghezza delle guerre resesi necessarie per la completa sottomissione.
Infatti, per circa mezzo secolo, e precisamente dal 343 al 290 a.C., i Sanniti seppero tener testa agli eserciti romani.Ma chi erano i Sanniti?
Erano un popolo di stirpe italica, insediato nell’antico Samnium e regioni adiacenti, costituite da tribù strettamente legate tra loro (Hirpini, Pentri, Caudini, Sidicini) o da alleati più o meno affini.
Essi, però, non potevano contare su una direzione unitaria, con un blocco di forze associate, ma solo su coalizioni esterne.
Presso i Sanniti era consuetudine che i giovani fossero mandati alla ricerca di una nuova sede per consacrarla ad una divinità che s’impersonava in un animale sacro che essi portavano come simbolo.
Ad esempio, la grande tribù che si estendeva al sud del territorio dei Sanniti era detta degli Hirpini, da hirpus, che in lingua osca vuol dire lupo.
Delle tre guerre sannitiche la più importante è senz’altro la terza, che durò ben otto anni, dal 298 al 290 a.C. Il console romano dell’anno 293 a.C. conseguì presso Aquilonia (l’odierna Lacedonia?) un’importante vittoria che viene descritta, con dovizia di particolari, da Tito Livio, nel X libro della sua Deca.
Fu veramente imponente il dispiego di uomini e mezzi: coorti e legioni di cavalieri e fanti diedero vita ad uno scontro violentissimo. La maggiore resistenza fu incontrata proprio sotto la fortezza di Aquilonia, non per il maggior coraggio dei Sanniti, ma perché- commenta Tito Livio- le mura difendono più delle trincee.
Si dovettero, perciò, scalare ed abbattere le mura di un’autentica fortezza.
Restarono stesi sul campo in quella sola giornata oltre tentramila uomini, circa quattromila soldati furono fatti prigionieri; furono, infine, strappati ai Sanniti novantatrè stendardi. Cifre queste veramente impressionanti.
La città, poi, completamente sgombrata fu divorata dalle fiamme. Spettacolare fu, infine, il trionfo del console Porfirio, tornato a Roma col ricchissimo bottino e le spoglie strappate ai Sanniti.
Furono particolarmente insigniti i centurioni e i soldati che per primi avevano occupato la porta e le mura di Aquilonia.
Agli studiosi che, oggi, sulla scorta della narrazione storica di Tito Livio si apprestano ad identificare i luoghi della più famosa e sanguinosa battaglia della terza guerra Sannitica scavi ben guidati dovrebbero far tornare alla luce i resti delle antiche mura della città di Aquilonia. Staremo a vedere.
Ma le opinioni non sono concordi.
Tuttavia, la storia è ricerca di verità e le opinioni, come l’esaltazione campanilistica, sono deleterie e non costruiscono qualcosa di nuovo e di interessante.
Infatti, Gaetano e Leonida Sansone hanno identificato Aquilonia con la scomparsa Carbonara e l’oppido di Lioni con una città antica sulla base dell’opinione che Ferentinum, menzionato da Livio, fosse l’omonima contrada di Nusco:A Carbonara e lungo le pianure dell’Ofanto, fino a Fiorentino, furono ancora una volta sconfitti gli Irpini, i cui resti si rifugiarono nelle campagne di Aquilonia e nei boschi di Vaiano.
30 mila soldati Sanniti rimasero sul campo di battaglia e 4 mila furono prigionieri.
Ancora oggi le pianure di Carbonara, Monteverde, Ferentino sono seminate di sepolcreti e di ossami, che si rinvengono sotto il vomere dell’ignorante bifolco”.
16 Ferentino, presso la città di Nusco, comporta, però, altre questioni, che vanno affrontate senza offendere il mondo contadino e tenendo presenti le parole di Guerrazzi: Tutti gli storici si professano sviscerati della verità, ma nessuno la dice; molti per malizia, molti per viltà, molti per pedantesca tracotanza, e troppi per impotenza.
Romanelli traeva ragione di credere che a Fereto, sorgesse l’urbs ipsa di Livio, cioè la città detta Frentana.Di diverso avviso fu lo strorico nuscano Gaetano Maria De Santis: Sono tre le città, egli scrive nel Manoscritto seguito dai due Passaro, sotto il nome di Feretino, una situata nella Daunia, nelle vicinanze di Lucera di Puglia; un’altra nella campagna di Roma, vicino ad Anagni; la terza negli Irpini.
Di una di esse parla Tito Livio nella deca prima, libro decimo, nel modo che segue: Appena arrivato, il console dispose e ordinò l’esercito davanti alle mura, convinto che si sarebbe dovuto combattere come a Milonia; ma poi colpito dal silenzio che regnava dappertutto, non vedendo gente armata sulle torri né sulle mura, temendo d’incappare incautamente in qualche agguato, trattenne i soldati smaniosi di balzare su quelle mura prive di difensori, e mandò due squadroni di cavalleria degli alleati Latini a fare un giro di attenta esplorazione attorno alle mura.
I cavalieri vi scorsero due porte, e poste entrambe nella stessa direzione e vicine fra loro, ma aperte, e le strade che ne diramano portanti i segni della notturna fuga dei nemici.
Cavalcarono, poi, piano piano, fino alle porte, e costatano che la città si può attraversare in tutta sicurezza lungo le sue diritte vie: informano il console che il nemico ha lasciato la città e che il fatto è evidente dall’assenza certa degli abitanti, dalle orme recenti dei fuggiaschi, dagli oggeti abbandonati qua e là nella trepidazione della fuga.
Ricevuto il rapporto, egli conduce le truppe a quella parte della città dove si era svolta l’esplorazione dei cavalieri; ma le fa fermare non lontano dalla porta e ordina a cinque cavalieri di entrare nella città, di avanzarvi un po’: se tutto appare sicuro, tre rimangano sul posto, gli altri due tornino a darne notizia.
Questi, essendo tornati, riferiscono di avere trovato dappertutto silenzio e solitudine.
Il console allora vi fa entrare alcune coorti leggere; a tutti gli altri dà ordine di fortificare la posizione.
I soldati delle coorti entrano, abbattono le porte delle case e vi trovano soltanto pochi vecchi e invalidi e roba abbandonata perché difficilmante trasportabile; essa venne fracassata: e si seppe dai prigionieri che alquante città dei dintorni avevano, di comune accordo, stabilito di darsi alla fuga; che i loro contadini erano partiti sul fare della notte e che forse i Romani avrebbero trovato anche in altre città lo stesso abbandono.
Le informazioni date dai prigionieri risultano esatte: il console non s’impradonì che di città abbandonate.
Il racconto liviano, che compare nei capitoli XVII e XXXIV del decimo libro della prima Deca, non si riferisce alla città di Ferentino Irpino, i cui cittadini, prosegue De Santis nei suoi errori storico-geografici, vennero a fabbricare nel piano del monte sotto il castello, un tempo fortezza di Ferentino, e da quel momento non si nominò più Ferentino, ma Nusco.
Purtroppo di Nusco e dei dintorni non si fa menzione in Tito Livio, ma nelle false opinioni di storici locali, che hanno interpolato alcune epigrafi dell’Antiquarium di Fontigliano di Nusco, che deriva il nome da “Fondeleano”, cioè dalla fonte della vergine Diana, la dea che esercitò un potere sulle arti magiche, come quelle di fare sparire dalla faccia della terra Ferentino e di attribuirle, successivamente, la sede vescovile di Nusco, creando vescovi: Ricciardo, Sigismondo d’Arezzo (1104), Silvano da Venafro (1110), Odorisio dei conti di Sangro, che sarebbe stato l’ultimo a conservare il titolo di Vescovo di Nusco e Ferentino.
C’è da notare che la serie dei Vescovi di Nusco, criticamente accertata dall’Ughelli, parte da Sant’Amato e lascia nel buio i nomi suddetti e voluti da Amato Maria Santagata.
Questi scrisse la Vita del novello servo di Dio Nicolò De Mita, che è ricca di simili inesattezze e arbitrarie conclusioni.
Note Paragrafo I
1. F. DE LUCA- R. MASTRIANI, Dizionario corografico del Reame di Napoli, Milano, Civelli, 1852, p. 648.2. M. FRECCIA, De’ Suffeudi, libro I, f. 83.3. G. BUGNI, Storia del Regno di Napoli e del suo governo, Napoli, Regina, 1851.4. STRABONE, V, 4, 12 (trad. N. BIFFI, L’Italia di Strabone, Genova, Università, 1988).5. T. LIVIO, Le Deche, a cura di M. J. NARDI, Venetia, 1734, p. 198.6. A.A. APREA, La Sannitide scomparsa. Sannio amaro, Roma, Tip. Artigiana Multistampa Snc, 1981, p.51.7. V. NAPOLILLO, Lectura Dantis, Cosenza, Ed. 2000 di D. Guzzardi, 1990, p. 15.8. L. ALBERTI, Descittione di tutta l’Italia, In Venetia, Appresso Paolo Ugolino, 1956, p. 70.9. V. NAPOLILLO, Rivisitazioni della storia di Nusco, A.B.E. Edizioni, 1998, p. 40.10. P. ALBINI, Campobasso, ne “Le Cento Città”, a. (1895), n.105, p. 1.11. T. LIVIO, La prima Deca, a cura di L. PERELLI, Torino, UTET, 1953, p. 768.12.. L. ALBERTI, p. 70.13. - IVI, p. 253.14. AA. VV., Dizionario di toponomastica. Storia e significato dei nomi geografici italiani, Torino, UTET, 1990, p. 471.15. L. ALBERTI, p. 260.16. G. SANSONE- L. SANSONE, La città di Lioni, Lioni, Tip. Irpinia, 1959, pp. 19-20.2.Orazio sulla via AppiaGli archeologi da villaggio hanno dimenticato il vero tracciato dell’Appia antica, definita da Stazio regina viarum (Silv. II, 2, 212). Essa fu costruita e lastricata nel tratto iniziale, da Roma a Capua, nel 312 a.C., dal censore Appio Claudio Cieco.1 Dopo il 268 a.C. pare sia stata prolungata fino a Beneventum, poi intorno al 190 a. C. fino a Venusia e, in seguito, fino a Tarentum e Brundisium.2 La parte lastricata da Traiano prese il nome di lui. Annibale, disceso in Italia dalle Alpi, bloccò la via Appia a Sinuessa; ma, l’anno dopo, i Romani sbarrarono il fiume Volturno e l’angusto paesaggio montuoso di Terracina (Anxur o Lestriconia), per ostacolare gli approvvigionamenti provenienti dal Mediterraneo.3 Egli fu costretto, come Pirro, ad abbandonare l’Italia nel 202 aC. Il venusino Quinto Orazio Flacco lega la sua poesia alla scuola di vita, ossia al buon senso, che loda e difende il “giusto mezzo”. Nei due libri delle Satire (il primo composto fra il 41 e il 35, il secondo fra il 35 e il 30 a.C.) rivela un impegno civile superiore a quello dei neoterici. Nella Satira V, del libro I, seguendo la Musa pedestre, cioè una durezza di stile satirico,scrive una specie di giornale del viaggio fatto nell’aprile del 38 a.C., da Roma a Brindisi, in compagnia di Virgilio, Mecenate ed altri ragguardevoli personaggi,4 per cercare di riconciliare Ottaviano con Marco Antonio. Graziosi episodi, giudiziose riflessioni, la maestria del sermone rendono i quadri, che si succedono con rapidità e naturalezza, molto rimarchevoli ed interessanti. Orazio si diresse ad Ariccia, accompagnato da Eliodoro di Larissa, dottissimo retore greco. La sua seconda stazione fu al foro di Appio, vicino alle Paludi Pontine (tra Cisterna e Terracina). I viandanti si divisero in due giorni il cammino, che i più svelti compivano in una sola giornata. Verso sera cominciarono le dispute dei marinai con i garzoni; le zanzare e le rane, sotto il cielo sfolgorante di stelle, sviarono il sonno. Il barcaiolo brillo e il passeggero, che gareggiava con lui, cantarono la bella donna che si stava lontano; infine s’addormentarono. Alla luce del giorno, si destarono la mula e il nocchiero, colpiti dal randello di salice,sui lombi e alla testa. Era l’ora quarta (la decima del mattino), quando giunsero al fonte di Feronia (da alcuni chiamata Giunone), dove si lavarono mani e viso. Dopo il pranzo, i viandanti s’inerpicarono, per tre miglia, sulla via di Terracina (una volta chiamata Thracne, per l’asperità del luogo, distante da Formia quasi 200 stadi, piantata in vetta a una candida rupe. Qui attesero l’ottimo Mecenate e Cocceo; si presentò anche Capitan Fonteo, uomo senza taccia e garbato. Tutti lasciarono, con allegria, Fondi, deridendo per la via Appia, i privilegi di quell’Aufidio Lusco, che faceva da pretore. Stanchi, alla fine, si fermarono nella città di Mamurra (detta Itri), dove Murena apprestò il tetto e Capiton la cena. Il dì seguente corsero ad incontrare Plozio, Vario e l’amato Virgilio a Sinuessa (l’attuale Mondragone). Una piccola villa, presso il Ponte di Capua, sul fiume Volturno, offrì loro ospitalità e gli anziani fornirono loro, seconda l’usanza, sale, legna da ardere. In questo Casale di Volturno, i Capuani deponevano i fardelli dei muli. Mecenate andò al Ginnasio; Virgilio e Flacco Orazio si misero, invece, a dormire. Indi si partirono dalla villa Cocceo, situata sulla taverna di Caudio (Arpaia?), nella Valle Caudina, dove ci fu una tenzone tra Messio Cicino e il buffone Sarmento. Il primo era il rampollo, anzi lo escremento, dell’antico re Osco, da cui alcuni popoli di Terra Laburis (Terra di Lavoro) presero il nome di Osci (oppure Oschi), di turpe costume, donde il vocabolo osceno ; il secondo aveva ancora la padrona fra i vivi. Con simili follie, si prolungò il banchetto. Di poi, i viandanti , senza fermarsi, proseguirono per Benevento, dove corsero qualche rischio: l’oste, nel girare sul fuoco i magri tordi , fu sul punto d’incendiare le pareti e il tetto della cucina. Tutti si misero a spegnere le fiamme. Da quel sito si vedevano i monti della Puglia, percossa dalle violente raffiche di Garbino (Libeccio). Il valicarli dall’oppido di Atabulo sarebbe stato per loro difficile, se non avessero trovato ospitalità nel vicino villaggio di Trevico (o Vico). Quivi , con gli occhi lacrimosi per il denso fumo dei rami verdi e delle foglie fresche, crepitanti nel focolare, Orazio, pieno di desiderio venereo e di pazza voglia, aspettava una dispettosa quanto sleale ragazza, che mancò all’appuntamento; e il sonno amico prese il poeta, dopo che si era imbrattato la veste: Nocturnam vestem maculat, ventremque supinum. Nel carrettino percorsero ventiquattro miglia. La comitiva si fermò nel piccolo borgo, dal nome prosaico, di Equotutico, che dal Bindi sarà chiamato Scotuccio o Ecotuzzi, dove si comprava l’acqua e il pane era squisitissimo: E’ facilissimo indicarlo, dice Orazio, con questi segni; si vende persino l’acqua, ma in compenso il pane vi è delizioso, tanto che il viandante, passandovi, suole farne provvista, che gli faccia fare un altro poco di via. E’ difficile identificare il villaggio con S.Eleuterio di Ariano, come pretendono alcuni; è più facile indicarlo, verso Foggia, ad Ascoli Satriano. I viaggiatori ne fecero una buona provvista, perché sapevano che il pane di Canusio (=Canosa) era duro come la pietra e l’acqua era scarsa. Diomede fondò quel luogo e Vario prese a Canosa congedo dagli amici piangenti. Ansiosi di riposare, i gitanti arrivarono, bagnati dalla pioggia, dopo un lungo tragitto, a Ruvo di Puglia. Il tempo si aggiustò il giorno dopo, ma la via presentò altre difficoltà fino alle mura della pescosa Bari. L’occasione di sollazzo e di beffe offrì Gnazia (Egnazia o Nazzi), che diede il nome alla via Egnazia, a 7 chilometri da Fasano, situata sulla riva del mare. Il popolo impazzito pretendeva che bruciasse, nel tempio, l’incenso senza fuoco; il circonciso Giudeo credeva in tale prodigio, ma Orazio pensava che gli dèi fossero tranquilli nel cielo, dal quale rovesciano sugli uomini, talora, i segni della loro ira. Brindisi pose fine alla descrizione lepida e giocosa del viaggio. Altri “Itinerari” sono generalmente concordi con quello descritto da Orazio, che spazia, nel campo della poesia, fra immagini fantastiche, satiriche, stravaganti, ma traccia anche le tappe del suo viaggio in maniera vera e inconfondibile. E’ da notare che la via cominciata da Appio Claudio il Cieco, nel 312 a.C., passava per Isernia, Bojano, Sepino e conduceva a Benevento. Inoltre, Lucio Cornelio Silla , legato del console Lucio Porcio Catone, prese parte alla guerra sociale e marciò, nell’anno 89 a.C., vittoriosamente, contro Bo(v)iano, capitale dei Sanniti, Telesia ed Esernia e distribuì, ai soldati , le terre di questi miseri abitatori, in premio della ferocità consumata.5 Nunzio Maria Della Vecchia,6 per ammettere solo Aquilonia Irpina e per escludere dalla geografia Aquilonia Sannita, dovette scrivere: Il Boviano di cui parla Livio nella guerra Linteata non è il Bojano nel Contado di Molise, ma l’antico Bojano degl’Irpini , oggi detto Bosco di Vajano tra Nusco e Castel de’ Franci, che il crediamo risorto dalle di lui rovine. Questo Bojano esisteva nell’anno di Cristo 1084, come si rileva dalla Vita di S.Giovanni Vescovo di Montemarano.7 Dunque, egli tralascia di mentovare Aquilonia nel Sannio dei Pentri, dove erano ridotte le totali forze sannite, corrispondente alla distanza da Cominio dei Volsci di 20 miglia, e non lascia capire se Numerio Decimo, che comandò ottomila fanti e duecento cavalli, prima della sconfitta di Canne,spediti al dittatore Fabio Massimo, fu nativo di Boviano, come si dice con autorità, oppure del Bosco di Vaiano, tra Nusco e Castelfranci. Provvide Theodor Mommsen, insigne epigrafista, a sconfessare il nuscano Della Vecchia, a cui Salmon obietta che l’Ager Taurasinus, tra Luceria e Beneventum, è nei pressi dell’odierna S. Bartolomeo in Galdo. Sono, quindi, caduti in errore tutti quelli che hanno potuto fare storia dell’Irpinia, senza l’aiuto dell’Eneide di Virgilio e delle Satire di Orazio. Note Paragrafo II1. G. Picone, Sopra le frane ferme, in AA.VV:, Montevergine e l’Irpinia, Napoli, Pierro, 1996,p.149.2. G. Bonora Mazzoli, Le vie di comunicazione dell’Impero, in AA. VV., Atlante di archeologia, Torino,UTET,1996,p.106.3. M. Frank-D.M. Brownstone, Le grandi strade del mondo, Milano,Ingar,1984,pp.108-112. 4. L. Desprez, Quinti Horatii Flacci Opera, T. 2°, Napoli, apud V: Ursinum, 1821,pp. 406-412. 5. V. Buglione, Monteverde, Melfi, Nucci e Salvatore, 1929, pp. 115-116.6. V. Napolillo, Nusco, Rivisitazione storica, Avellino, ABE edizioni, 1998, pp.126-127.7. S. Pionati, Ricerche sull’Istoria di Avellino,vol.I, Napoli, Borel, 1828,pp. 177-178.
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